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Le acciughe tra gli agrumi e non solo

“Fuori dalla scatola”; m.22,5×2,5; 2023; acciaio 316 su cemento è un’opera di Massimo Catalani, si erge nella campagna sopra le cime degli alberi della nostra piccola impresa meridionale, quasi a galleggiare fra onde di foglie, un mare immaginario e tuttavia vero come solo le opere d’arte sono. È nel silenzio dei frutteti e dei greppi adagiati a morbide colline che digradano dolcemente, è in questa quiete mediterranea che da quel mare emergono come un miraggio branchi di acciughe che si affollano evanescenti e brulicanti come le emozioni.
Un’opera è ciò che trasmette, il significante di una passione, così l’azzurro non è il colore ma un anelito
a rompere le barriere che pongono limiti alla nostra esistenza, qualunque esse siano; le acciughe non sono solo pesci stilizzati ma la consapevolezza di essere parte di una comunità, non solo umana, ma universale, dalla quale dipendiamo e che definisce la nostra identità. Le acciughe insieme creano quell’orizzonte di vita autentica che è fuori dai limiti della civiltà, fuori dalla scatola delle abitudini e dei pregiudizi, fuori dal nostro piccolo mondo artificiale.

Dove, se non in campagna, le immagini e le emozioni prendono la forma reale dell’arte? Dove se non in
questa piana del metapontino nella quale uno spicchio di mare all’orizzonte si fonde con i colori della
terra e degli alberi da frutto, fra agrumeti a perdita d’occhio, fra le chiome verde-argentato degli ulivi
sferzati dalla brezza? Sembra di viverli i versi di Rocco Scotellaro, rimanendo qui immobili al mattino o
alla sera:

il vento mi fascia
di sottilissimi nastri di argento
e là, nell’ombra delle nubi sperduto,
giace in frantumi un paesetto lucano
(Lucania, 1940)

Dovunque si volge lo sguardo o in qualunque stagione ci si trovi, la natura della valle offre al viaggiatore
sensazioni caleidoscopiche, come le sfumature dei colori al cangiare dei mesi. Così il rosa tenue dei filari
dei pescheti cede il posto, a maggio, al candore mellifluo delle zagare visitate da solerti api o a giugno
quando i fiori selvatici della borragine, di papavero o i cespugli delle ginestre lungo i cigli delle strade
sfolgorano di bellezza, prima che il giallo delle messi mature di luglio diventi la tinta dominante sotto
l’arsura estiva. Tutto su una terra benevola, che Albino Pierro immortalava nei suoi versi, quando preso
dalla malinconia, ritrovava sollievo nella poesia e nel ricordo della sua infanzia passata fra le campagne
del metapontino, rimpiangendo di aver lasciato il proprio paese e la propria terra “ca mi davìte u respire d’ucèhe” (che mi dava il respiro del cielo).


Una terra di poesia, di miti

Una terra di poesia, di miti, di sacralità pagana, aspra e generosa al tempo stesso delimitata come una
conca d’oro da due corsi d’acqua, il Bradano e il Sinni, solcata a metà da quello che oggi è poco più di
un torrente, ma che un tempo era un rigoglioso fiume, l’Akalandros (Cavone). Sulle cui sponde il mito
narra che Epeo, il falegname che fabbricò il cavallo di Troia, approdo di ritorno dalla guerra; mentre
l’archeologia ci ha restituito, nella zona che oggi prende il nome di Termitito, ricche testimonianze di
popoli di origine micenea, che qui scelsero di vivere. Questi viaggiatori di età omerica furono i
precursori del successivo flusso migratorio dei coloni greci dell’Acaia, condotti in questi lidi dall’oracolo
di Apollo e sui quali hanno fondato le loro città; qui, lungo le sponde del Bradano, hanno edificato un
santuario ad Hera, Dea della maternità e dei cicli naturali. Nelle terse giornate di tramontana da queste
contrade si può scorgere in lontananza il massiccio del Pollino, ovvero il monte apollineo, così

battezzato perché sacro al Dio e simile al monte Parnaso in Grecia, il luogo per antonomasia della
poesia. Su questa terra lo si avverte ancora quel passato misto fra storia e mitologia, rimasto scolpito
non nel marmo ma nel cielo. Quello stesso che Pitagora scrutava fissando il suo sguardo di sapiente, in
cerca delle proporzioni che esprimevano l’armonia del mondo e i rapporti numerici con i quali leggere
nella natura l’impronta del supremo demiurgo e di cui l’uomo partecipa in quanto possiede un’anima
immortale.
Sedersi fra i declivi e sentire anche i millenni di silenzi e solitudine che hanno avvolto queste terre per
secoli quasi a riscattare la loro fortuna passata con la cattiva sorte dei cataclismi naturali che hanno
plasmato, distruggendolo, quel microcosmo di bellezza. E così col tempo, il mare ha cancellato
sommergendole, le tracce di quel passato, sradicandone il ricordo e seppellendo persino l’eco di quelle
splendide civiltà.

La Lucania e la storia

Eppure la Lucania è terra indomita e i suoi abitanti non si sono fatti abbattere dalla malasorte. Dopo la
guerra i cent’anni di solitudine vengono bruscamente interrotti dai motori a diesel delle idrovore che
hanno lottato con le forze avverse della natura ricacciando via le acque, prosciugando le paludi e
ripopolando quelle contrade deserte di montanari poveri, di quelli che Rocco Scotellaro chiamava
scalzacani. Di fronte a loro l’onere immenso di riplasmare un territorio e ridargli vita. Diventare contadini
e creatori era il compito che la Riforma agraria aveva affidato loro. Fino a qualche decennio fa si potevano
ammirare le torme di braccianti lavorare con le schiene piegate e rivolte al cielo fra i campi di grano o di
tabacco. Oggi quel passato non esiste più, ma è rimasto il frutto di quel lavoro paziente, di quelle fatiche
ingrate, del sudore e delle sofferenze, rimane nella campagna plasmata di bellezza, nella fertilità e amenità della valle metapontina.
In un attimo passano i secoli di storia, ma quello che rimane per sempre nelle generazioni. Questa è perciò la terra del ricordo, come la definiva Pierro, in cui la geografia si tramuta in immagine, in sogno
malinconico e felice. Dove una lingua madre, il dialetto dei contadini sancisce il legame spirituale che vive
nei suoni di un’infanzia specchio della gioia di vivere, nello stormire delle foglie degli aranci, nel cielo,
come riflesso della terra madre e matrigna.
Noi ci soffermiamo ad ammirare in silenzio tutto questo panorama e a viaggiare con la mente, scrutando
dentro di noi, nelle nostre storie, mentre le acciughe continuano a nuotare in questo mare immaginario
fuori dalla scatola, ma in un luogo che non ha confini, delimitato solo dagli spazi indefiniti dell’anima.
Dopo essere rimasti assorti così a lungo, sembra quasi di destarci da un sogno che ci fa guardare il mondo con occhi diversi e ritornare a vivere “con la felicità della paura/di andare incontro all’amore (Scotellaro, Si è fatto giorno)”.

Di Antonio Casoria